Un uomo scala una collina. Arriva in cima, viene colpito da un fulmine. Strane figure lo raggiungono, aprono il suo cadavere e cominciano a farcirlo di pagine strappate da testi arcani. L’uomo si rianima.
È questo l’incipit folgorante (è il caso di dirlo) di una perla nerissima del neogotico statunitense: parliamo de Lo Studente del Divino di Michael Cisco.
Fu proprio grazie a questa ouverture destabilizzante che l’autore, allora esordiente, convinse la madrina del new weird Ann Vandermeer a pubblicare il lavoro che gli avrebbe permesso di aggiudicarsi l’International Horror Guild Award.
Il viaggio dello Studente del Divino è un percorso iniziatico e misterioso che arriva a toccare anche il lettore, contaminandolo con una serie d’immagini disturbanti e confuse che da una sinistra accademia portano diritti al cuore della città di San Veneficio.
Cisco, forte di una lingua scarna ed evocativa che ben si coniuga al misticismo horror della sua opera prima, riesce in questo modo a delineare una trama molto rarefatta, rendendo le lacune e i passaggi oscuri della propria narrazione un vero punto di forza: come il protagonista anche il lettore vagherà fra le pagine come fra immagini perdute di un sogno quasi dimenticato, aggrappandosi con disperazione e terrore ai pochi appigli che la trama sembra offrire: personaggi ricorrenti, frasi allusive, visioni disturbanti e incomprensibili.

Var ve yok (2010)
C’è una missione, un compito sacro, c’è una strada impervia per raggiungerlo come nel più tradizionale viaggio dell’eroe, eppure ci sono anche elementi dissonanti che contribuiscono a creare un’atmosfera gotica e allucinata, degna di un incubo da cui è impossibile risvegliarsi: a partire dai varani che corrono di notte attorno alla città, ogni cosa sembra cospirare affinché il lettore si perda e non riesca più a uscire da San Veneficio e dalle strane vicende dei suoi personaggi.
Fra architetture assurde e strani culti, lo Studente del Divino si pone dalle prime pagine come un’opera volutamente anomala, che lascia fiorire un’atmosfera equivoca e inquietante senza preoccuparsi di spiegare, senza mai sentire il bisogno di giustificare le visioni con cui infesta gli occhi dei suoi lettori.
Accoppiamenti giudiziosi
Il protagonista senza nome di questa storia svolge un lavoro particolare: cerca le parole.
Lo fa nei libri, nella vera essenza delle cose, nell’invisibile che permea e attraversa ogni cosa. Fra vocazione e talento, la sua missione oscura è sinistramente collegata al destino degli scrittori, che scelgono le parole e le donano prelevandole dalla propria anima e dalla propria carne.
Le parole sono sortilegi in grado di cambiare il mondo, non si limitano a descrivere e trasmettere ma intervengono sul tessuto del reale e deviano il corso degli eventi.
Si può inventare qualcosa di nuovo? O si può solo sottrarre da questo insieme di parole prestabilite, fare brandelli delle loro lettere inanellate in file ordinate, teorie, discorsi, sequenze?
Emilio Isgrò con le sue cancellature sembra inseguire da anni la stessa chimera: solo eliminando il contesto e il superfluo le parole riescono a rinnovarsi, trovando una forza inedita nell’isolamento e nella concentrazione obbligata degli omissis neri.
Ecco che le cancellature – al pari delle lacune e delle ombre che costellano la prosa di Cisco – si rivelano nella loro nera nudità come strumenti potenti per stabilire connessioni ultraterrene e far germogliare significati e illazioni dove prima c’erano solo parole stampate.
“Si cancella per svelare, non per distruggere”, secondo l’artista e scrittore siciliano, mentre noi studenti del divino, noi discepoli ci poniamo di fronte alla sua selezione di significati assoluti, privati di ogni contorno oppure abbinati arbitrariamente in un discorso più ampio, sfuggente, mai terminato.
Come un sonnambulo il protagonista di questo romanzo entra ed esce da un torpore allucinato e fecondo, capace di estrarre da singole parole inerti intere storie, sentimenti, universi.
È un percorso di privazione, di dolore ma anche di liberazione, un viaggio iniziatico che trascende necessariamente il corpo umano e arriva a costeggiare, senza mai guardarli direttamente, tanto l’orrore quanto una forma sublime e purissima di bellezza.
La parola è dunque compiuta anche quando manca, anzi proprio nella sua assenza trova piena espressione e riesce a far comprendere il proprio inestimabile valore per comunicare, raccontare, creare legami.
La cancellatura e la caccia sono due attività complementari e sibilline: procedono parallele e spiazzano in modo analogo chi si trova a osservarle dall’esterno. Si rincorrono, entrano in conflitto e si richiamano in un delicato gioco di riflessi e deformazioni, in un certo senso formano una sintesi
Come diceva Meister Eckhart, in fondo, forse “solo la mano che cancella, può scrivere il Vero”.
