Suonami un pezzo, Jazzyboi!
Il cielo ha il colore del cartone. La luce è impotente. Sono le cinque e mezza. Un treno merci sta squassando le case di Via Fontana, le fa tremare come un terremoto. È la tua ora, Jazzyboi; Corso Buonarroti ti si assottiglia attorno, le macchine si moltiplicano sull’asfalto rosicchiato dai tombini. Fammi sentire! Le bacchette sono lunghe come le tue dita. Battono frenetiche. Tichetichetachetichetichetichetache. Tichetichetachetichetichetichetache, con le mani elettriche di un matto. Lungo il pomeriggio, Jazzyboi. Lungo come Corso Buonarroti. Come l’Adige che scivola pochi metri più in là.
Se piove non ti trovo. Il tuo angolo rimane spoglio. Il freddo invece non ti ferma. Forse anche quello ha smesso di sfiorarti, come gli sguardi cavi della gente che passa, ti squadra e attraversa la strada al semaforo. Il ritmo te lo porta via la pioggia che colpisce la panchina, il marciapiede, gli orli delle case. Vorrei essermi fermato a parlarti. Davanti alla tua c’è un’altra panchina. Chissà se suonerebbe come la tua. Alle tue spalle Corso Buonarroti ti guarda male, ride di te, pieno di rumori che non hanno grazia. Tu invece di grazia ne hai fin troppa. Le tue mani scure e sottili vibrano senza pace. Cercano il ritmo. Tichetichetachetichetichetichetache. Tichetichetachetichetichetichetache. E se lo trovano nessuno lo ascolta. Tichetichetachetichetichetichetache. Trento non ha orecchie per te.
Jazzyboi è un nome di fantasia. Potrebbe perfino essere un nome d’arte. Il vero nome non lo conosco. Non so nulla di te, del resto. Dove abiti, da dove vieni. Eppure Jazzyboi mi è sembrato un nome perfetto per te. Tu neanche lo sai che ti chiamo così. Sei come quei bambini che nascono e qualcuno li battezza, decidendo il nome per loro: se lo ritrovano addosso, una parte del corpo, e non possono strapparselo via. Non so se qualcuno ti chiami col tuo vero nome. Per me sarai sempre Jazzyboi. È un nome che mi piace, mi suona bene. Non so se ti piacerebbe, ma ti calza a pennello, ti si aggancia ai bottoni della camicia e ti si disegna sul viso e sui contorni del corpo. Dona ai tuoi gesti la sfumatura dorata di un ricordo distante. Ha una cadenza che ti somiglia, Jazzyboi: per pronunciarlo la voce deve scendere e poi risalire. Tichetichetachetichetichetichetache.
Quello che fai mi incuriosisce. Ti siedi sulla tua panchina e batti le bacchette contro il legno, ai lati delle gambe. Sempre lo stesso ritmo, frenetico, incessante. Tichetichetachetichetichetichetache. Le tue mani vibrano. I tuoi sono occhi fissi e neri come lettere stampate, mentre con la testa ondeggi leggermente. Mi stai simpatico, Jazzyboi, perché ti capisco: cerchi il ritmo. Ti tieni al riparo dai rumori che si impigliano nella via. Siamo in molti a farlo, Jazzyboi, siamo in molti a cercare il ritmo. Tu però non hai mai paura di non riuscire a trovarlo.
Chiudo gli occhi. Stasera gli archi non ti stanno dietro, solo i fiati tengono botta, ma gli archi… Jazzyboi, li stai umiliando. Tichetichetachetichetichetichetache. Sono in affanno. Boccheggiano. Tichetichetachetichetichetichetache. Che serata stupenda, Jazzyboi! Ballano TUTTI. L’aria è frizzantina. Guarda come muove le anche quell’uomo, lì in fondo, guarda come si muove! Il ritmo lo ha rapito. Tichetichetachetichetichetichetache. Chissenefrega degli archi. Oggi tutto si muove, tutto ha un’anima serena. Tichetichetachetichetichetichetache. Quella signora ha occhi solo per te, Jazzyboi. Ti sta divorando. Tichetichetachetichetichetichetache. Guarda come fuma, sembra una diva. Tichetichetachetichetichetichetache. Come si allungano le sue dita nella penombra della stanza. Tichetichetachetichetichetichetache. La tua musica la cinge ai fianchi. Tichetichetachetichetichetichetache. Che serata magnifica, Jazzyboi. Tutto danza. Il ritmo arriva a tutti, Jazzyboi, stai facendo ballare anche i calici. Tichetichetachetichetichetichetache. Tichetichetachetichetichetichetache. Tutto è luce.
Il tuo nome è ancora lì, ticchettato e vivido sulla nevrosi del legno umido. Triste il pomeriggio, Jazzyboi. Triste e largo come un occhio che si chiude.
Che ritmo abbiamo quando ce ne andiamo? Forse lo stesso. O è silenzio, un passaggio a vuoto. Una battuta che salta, qualcosa fuori tempo. È bastato questo: un accenno spietato di inverno. Un cielo mozzato che ti ha catturato le dita e le ha strette nel buio. L’inverno non ha grazia, Jazzyboi. Muove fili che nessuno vede. Appende le parole alle pareti in macchie umide e nere. Corso Buonarroti si ritorce nel silenzio. Due cose mancano, adesso: la luce e il ritmo.
L’autore
Lorenzo Vercesi è nato a Trieste nel luglio del 1994. Ha sempre abitato a Milano, ma vive a Trento da diversi anni. Dopo un dottorato in Neuroscienze Cognitive, studia Psicologia Clinica all’Università di Trento e lavora come Educatore a scuola e su interventi domiciliari.
È co-fondatore e caporedattore della rivista Gelo. Ha pubblicato poesia online e nel cartaceo, ma da qualche tempo ha iniziato a interessarsi di prosa narrativa. Suoi lavori sono apparsi su Lo Scisma, micorrize.
