“Il grande animale” di Gabriele Di Fronzo

Francesco Colloneve non ha mai avuto il suo grande animale. Si è occupato di gatti, serpenti, persino di uova. Ma nessun grande animale, mai.

La sua storia è quella di tutti noi quando ci troviamo a maneggiare il passato per cercare di preservarlo: i rimedi alla dissipazione ci gonfiano le dita in bubboni purulenti, il lavoro ci estenua e ci piega la schiena. Siamo tutti, come Francesco, tassidermisti della nostra stessa storia?

Ogni cosa sembra destinata a decomporsi per non conservare alcuna memoria della sua forma originaria, ma il lavoro di un buon impagliatore è proprio questo: lottare ogni ora, ogni giorno, contro il tempo.

Kathleen Ryan, Pleasures Known (2019)

Francesco Colloneve, magistralmente ritratto da Gabriele Di Fronzo nel suo romanzo Il grande animale (edito da nottetempo), sviluppa una lenta crescita interiore e una severa etica professionale a forza di errori e tentativi, imparando a restare tenacemente in bilico fra la finzione della vita – con le sue pose plastiche, gli occhi di vetro, le imbottiture sintetiche- e la celebrazione della morte e della caducità delle cose.

Imbalsamare un animale non significa infatti profanare la sua dipartita e negarla, quanto piuttosto accettarla fino in fondo e provare a superarla immortalando la sua vita ormai trascorsa in una forma destinata a sopravvivere al suo stesso creatore.

Come ogni forma d’arte anche la tassidermia si rivolge ai vivi, a chi resta, eppure è un lavoro che si svolge integralmente nel corpo di chi è dipartito, sia esso un gatto, un cavallo o un essere umano.

Kathleen Ryan, Bad Peach (2022)

Pinze, cucchiai, unghie. I materiali con cui Di Fronzo assembla il suo romanzo sono attrezzi inanimati e cadaveri, indubbiamente, ma recano in sé, ben cucito fra le imbottiture e la pomata arsenicale, un barlume di memoria che titanicamente si oppone al tempo, a questo Dio invincibile e indifferente che macina tutto e tutto cancella e ricicla.

Ha senso opporsi, provare a preservare?

Con una prosa asciutta, strutturata in frammenti tanto piccoli ed esatti da conferire un singolare dinamismo anche alla professionalità immobile del tassidermista, Di Fronzo tratteggia un legame forte e ambiguo fra il lavoro del suo protagonista e la sua necessaria presenza al capezzale del padre infermo, già troppo compromesso nella mente e nel fisico per poter essere salvato.

Cosa farebbe un buon imbalsamatore, a questo punto? Prenderebbe coscienza dell’irreversibilità delle perdite, proverebbe a preservare una traccia seppur parziale di ricordo, tenterebbe con ogni strumento disponibile di bloccare furiosamente il decadimento di ciò che lo circonda?

Kathleen Ryan, Bad Lemon (2020)

Il paradosso di questa professione sta proprio nella sua collocazione sospesa fra la vita e la morte. Il tassidermista le conosce entrambe, tecnicamente, e sa benissimo come creare un ponte fra di esse senza snaturarle e senza svuotarle di senso. Eppure nessuno può restare indifferente di fronte alla perdita di un genitore e ancora di più alla sua decadenza fisica e mentale, nemmeno un professionista del settore.

Fra lampi di lirismo e immersioni tecniche nel fascino gotico dell’impagliatura, Di Fronzo ci immerge così in una storia anomala e soffusa, che si compone di quadri minuscoli e di dettagli adombrati, rinforzandosi pagina dopo pagina in un lento crescendo, prendendo forma e coscienza della propria voce, fino a distendersi completamente in un canto sofferto e puro sulla provvisorietà della nostra vita e della nostra mitologia privata.


Accoppiamenti giudiziosi

I parallelismi fra la memoria disgregata di un anziano e la conservazione del corpo morto di un animale aprono un quadro doloroso ma necessario sul tema della nostra caducità come esseri viventi.

Tutto sembra passare troppo velocemente per meritarsi una vertigine d’immortalità: la bellezza di un animale amato o temuto, le cose stipate per una vita intera dentro un appartamento, i vestiti, l’arte, i ricordi di violenza fisica o psicologica tese come ragnatele fra un padre ormai anziano e un figlio adulto.

Kathleen Ryan, Generator I (2022)

La strada percorsa da questo romanzo è originale e impervia: con frasi brevi, condensate, prova a ricucire i brandelli di un passato sfibrato ed esausto, rendendo degna di un museo l’archeologia privata di una famiglia come tante.

Cosa salvare, cosa mantenere?

Francesco e il suo autore hanno le idee chiare: non bisogna idealizzare, tramandare una finzione. Il cavallo non va impagliato nell’eroica posa rampante di alcune sculture antiche, il cane da compagnia non va immortalato mentre fa le feste a un padrone invisibile. Se la vita è composta da spigoli e asperità anche la morte non deve avere un aspetto eccessivamente levigato.

Sospeso fra repulsione e fascinazione, il nucleo di questo romanzo breve e imprescindibile sembra stare proprio nel concetto di decadimento. Come nelle sculture di Kathleen Ryan, la decomposizione si cristallizza in un momento eterno utile per strappare un frammento di memoria all’incessante digestione del tempo.

Kathleen Ryan, Semi-Precious Bone (2018)

Contrariamente a Francesco Colloneve, l’artista californiana si concentra in particolare sulla frutta, ritraendo limoni e angurie non nell’istante idealizzato e perfetto della maturazione ma al contrario nel periodo del declino e della marcescenza: le sue opere – similmente alla tassidermia – riscattano la caducità del mondo terreno sostituendo al tumulto delle muffe e al lavorio degli insetti la bellezza eterna e inquietante delle pietre dure.

In questo modo la frutta – emblema perfetto del ciclo delle stagioni e della fragilità dei nostri istanti – diviene qualcosa di eterno ed eternamente avariato: come i ricordi agrodolci di una famiglia non perfetta, come le pelli di un grande animale morto, cucite e montate per mimare per sempre la vita con tutte le sue meravigliose storture.

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