Poesia? Prosa? Delirio, mito, previsione? Per Dimitris Lyacos i confini non importano. Sono binari da attraversare sperando che non passi nessun treno, sono linee fatte per essere superate, recinti mentali che la penna può attraversare impunemente e modificare con un semplice tratto che s’interrompe, si torce, si distende: un segno scritto, una parola. Un verso, una frammento, una pagina.
La sua ricerca è ardua come la salita a un monte troppo liscio per essere scalato: il significato di ogni passaggio sfugge e si mimetizza agli occhi dei lettori dentro un testo complesso e articolato eppure così esile da sembrare velocissimo.
La voce dell’autore è asciutta eppure profonda, come il respiro antichissimo delle pietre o il corpus incompleto di un grande filosofo ormai dimenticato.

Basta una manciata di pagine perché il lettore sia trascinato dentro un mondo oscuro, un gioco a incastri di scritti ritrovati e libri e citazioni ricorsive: è la trilogia, la grande opera di Lyacos, Pœna Damni, l’inferno del postmoderno portato in Italia da Il Saggiatore nella preziosa traduzione di Viviana Sebastio.
Tutto ciò che ci racconta è collocato nella nebbia di un tempo in cui il futuro sembra esaurito per sempre: fra i versi e i brani in prosa dei tre volumi non resta che sopravvivere arrancando fra le macerie delle glorie che furono, non resta che scappare al crollo di ogni istituzione e usanza nascondendosi, salendo su un treno, strisciando nel buio come i nostri progenitori nelle caverne, a ritroso nella storia dell’umanità.

Ogni parvenza di civiltà è stata demolita, ogni desiderio soppresso dentro una dolente infinita contemporaneità. Non esiste passato, non esiste futuro. Tutto accade, ora, come un grande strappo nel tempo che siamo abituati a dividere in ore e minuti ed epoche.
La storia parte dalla fine: Z213: Exit, il primo libro, è l’ultimo scritto in ordine cronologico. In questo volume, forse il più narrativo della trilogia, il protagonista senza nome evade da un campo di detenzione e si perde in treno in un’odissea moderna, fra paranoia e presagi biblici, in una fuga delirante che culmina nell’uccisione quasi rituale di un agnello.
Procedendo a ritroso, o forse in avanti, troviamo Con la gente dal ponte: forse ritorna lo stesso protagonista innominato, forse ci troviamo di fronte a ciò che resta di un’esibizione teatrale. Ci sono coro e narratori, la classicità lascia il posto a suggestioni di vampirismo, alla cronaca, all’idea profana che la morte sia qualcosa di reversibile, al sangue.
La narrazione, sempre più poetica e rarefatta, culmina infine ne La prima morte: è un libro che il protagonista trova in treno, forse è un sogno, forse è realtà.
In questo segmento seguiamo il disfacimento psichico e fisico di un uomo abbandonato su un’isola deserta, vediamo il suo corpo straziato dalle onde contro gli scogli, assistiamo alla sua sublimazione, che – alludendo al rituale dello sparagmòs, lo smembramento di un animale a mani nude e la successiva consumazione delle sue carni – si ricollega idealmente all’inizio della trilogia e crea un circolo capace di elevarci verso un finale metafisico, una speranza luminosa, una rottura col mondo fisico e con le sue atrocità.
Accoppiamenti giudiziosi
La Grecia è il teatro ideale per l’introspezione postmoderna. È una terra in cui il peso del passato trasuda da ogni memoria collettiva, da ogni statua e da ogni architettura bianca: guardando alla maestà del tempo trascorso è impossibile non avvertire il terrore per la fine dei tempi, per un collasso prossimo di ogni bellezza.
Può esistere ancora bellezza dopo tutto questo? I personaggi tratteggiati in Pœna damni sembrano al contempo eroi antichi e moderni uomini senza qualità, squallidi come la decadenza di un’età dell’oro ormai dimenticata e ugualmente difficili da comprendere nella loro odissea minuscola verso il termine di una notte senza sbocchi.
Il lavoro di Dimitris Lyacos con la materia della storia e del mito ricorda molto il processo di scavo e analisi effettuato con la serie Beyond Hellas dall’architetto Santiago Calatrava, ispirandosi ad alcune sculture d’età classica: ritroviamo nelle forme pulite e scabre delle sue opere l’efferatezza del Novecento e la gravità della modernità mentre cerca di razionalizzare la mitologia e la sua forza inesauribile che ci plasma la mente dall’interno come una forma di sapere innato e ancestrale.

Guerrieri, scudi, forme pure che si asciugano sino a diventare un archetipo: è l’apocalisse dell’arte che si mutila e scarnifica per diventare ancora più pura, più vicina a un ideale, più affilata.
Calatrava indaga il classicismo e lo profana senza timore reverenziale, come Dimitris Lyacos recupera personaggi e pose da un passato ormai ingestibile e li utilizza per esplorare il disagio dell’uomo moderno, il nano sulla spalla del gigante, il figlio che si porta dietro il bagaglio enorme e soffocante dei peccati di tutti i padri mai esistiti.
Ecco che sullo sfondo delle tradizionali meccaniche teatrali, fra rimandi colti e serrata visione cinematografica, Lyacos assembla un oggetto narrativo non identificato, poetico e arido allo stesso tempo, che si fa forza di ogni esperienza passata per provare dolorosamente ad andare oltre, a valicare il confine, a guardare oltre il baratro della fine dei tempi per provare disperatamente a capire cosa ci aspetta dopo tutto questo buio.
Bonus
Alcuni approfondimenti molto interessanti segnalatici da Δημητρης Μιχαλοπουλος, che ringraziamo:
– un’integrazione dell’autore all’edizione italiana, da collocarsi in chiusura del terzo libro;
– l’intervista di Toti O’Brien a Dimitris Lyacos, in lingua inglese.

Una recensione splendida. Suggerisco l’ intervista di Lyacos sulla violenza e il suo nuovo libro: https://www.lospazioletterario.it/violenza-intervista-dimitris-lyacos/
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Grazie mille per il suggerimento. Corro a leggerla volentieri 🙂
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