Spesso non comprendiamo la vicinanza di procreazione e macellazione se non pensando agli allevamenti di bestiame: posti in cui la vita e la morte scorrono così vicine da contaminarsi.
È evidente che l’idea industriale di produrre e consumare applicata a corpi viventi possa mettere a disagio il consumatore, quello che nella corsia del supermercato vede le bistecche addormentate felici nel loro comodo involucro di plastica, allora bisogna inventare un nuovo linguaggio e con esso una nuova prospettiva: non corpi ma tagli, non animali ma capi.
La bistecca pulita nel bianco del polistirolo, come se fosse un prodotto qualunque e non ciò che resta di un essere vivente, aiuta di certo le vendite e tacita almeno per il tempo della masticazione la voce interiore che continua a ripetere ai commensali che dietro ogni pezzo di carne ingoiato c’è un processo di selezione, inseminazione, uccisione e smembramento. Questo non aiuta le vendite, è chiaro. Lo sappiamo, è ovvio che succeda, ma per continuare a mangiare spensierati bisogna imparare a chiudere gli occhi, almeno nell’esatto momento in cui la vita diventa pietanza.

L’ignobile compito che l’industria si prefigge è insomma privare la carne del tabù connaturato al suo consumo, renderla innocua e amichevole e così privarla anche del mistero che pervade le cose viventi e le cose morte.
In bocca, in questo modo, finisce una carne depotenziata, sorridente e fasulla: non più cerimoniale, sacrificio, magia dolorosa, solo spuntini e ordinario consumismo.
Così fra tagli scontati e carni nostrane, nella perpetua negazione del dolore che rende colorate le corsie dei supermercati e felici tutti i bambini, viene naturale chiedersi se si mangerebbe qualunque animale. Un cane, un gatto? E un essere umano?
È su questo interrogativo che Agustina Bazterrica intesse un’opera spietata e cruda come il pavimento di un mattatoio: Cadavere squisito.
Mangiare o essere mangiati
In un futuro prossimo un virus (che forse esiste o forse è frutto di una cospirazione) renderebbe impossibile l’allevamento di bestiame e di conseguenza il consumo di carne animale.
L’unica strada possibile per continuare ad alimentarsi in questo modo è l’allevamento regolamentato e professionale del solo animale che sembra resistere al contagio: l’essere umano.

“Cadavere squisito” ci lascia sorvolare la vita qualunque di un ex proprietario di macello, ora rassegnatosi alla conversione del mercato e al suo nuovo ruolo di specialista di carni umane.
Parallelamente al suo lavoro quotidiano, che viene descritto in quadri di angosciante ordinarietà, fra mutilazioni e burocrazia, sulla sua esistenza incombono le ombre speculari della morte in culla di un figlio e del deterioramento psicofisico del padre.
Bazterrica, con un titolo deliziosamente surrealista e una prosa chirurgica come un’autopsia, cucina un horror disinibito e conturbante, che basa proprio sull’assenza di risposte il suo fascino macabro: cosa ci rende diversi da un animale? Ogni dieta carnea è cannibalismo?
In questo libro, come in un allevamento intensivo, coesistono strettamente allacciati i concetti di produzione e riproduzione: il primo basato sulla morte e sulla lavorazione dei cadaveri di uomini e animali, il secondo sulla generazione che finisce anch’essa per divenire processo industriale, selezione e produzione di nuovo materiale da vendere e consumare.
La tragedia dell’uomo è quella dell’unico predatore consapevole del dolore che infligge: alle bestie ammassate prima di un’uccisione industriale, agli altri esseri umani costretti a vite miserabili, alla fuga, a una forma di immolazione che non richiede alcun consenso, solo pregiudizi e buone scuse per silenziare ogni forma di empatia.
Accoppiamenti giudiziosi
L’unico modo per avere una prospettiva autentica sulla carne è guardarla da vicino: oltre le fandonie dell’eccellenza e della tradizione, insinuarsi fra le fibre muscolari e i gangli della burocrazia per osservare dall’interno tutto ciò che porta un animale a mutarsi in alimento.

(2012)
Marc Quinn sceglie di dedicarsi, nella serie Flesh Paintings, a grandi dipinti ad olio, ultrarealistici, sul tema della carne. Le sue inquadrature sono talmente ravvicinate da trasformare bistecche ammassate in visioni astratte, nell’alternanza spietata di rossi accesi e bianchi, muscoli e grasso.
I colori della vita, le tinte gioiose e la pienezza che satura la tela non fanno che acuire il disagio dell’osservatore, forzandolo a riflettere su cosa sia squisito e cosa rivoltante: come può un cadavere diventare cibo?
È con questo paradosso che Quinn e Bazterrica, parallelamente, esplorano il mistero dell’alimentazione, l’atto antico e magico di divorare il nemico per acquisirne i poteri paragonato alla semplicità dell’acquisto di un pasto comodo e pulito: il piacere di qualcuno può giustificare l’omicidio di qualcun altro?
Forse è più comodo non vedere e non sentire: turarsi le orecchie mentre si continua a mangiare fingendo che non esista il dolore, fingendo di essere superiori per dimenticare che siamo tutti cibo, in qualche modo, siamo tutti animali esausti, messi all’ingrasso, pronti per essere digeriti.
