“Dissipatio H.G.” di Guido Morselli

Nel luglio del 1973 Guido Morselli se ne va con un colpo della sua Browning 7,65, la sua “ragazza dall’occhio nero”. Il suo suicidio resta il crimine peggiore dell’editoria italiana.

Si è ucciso dopo una lunga sequenza di rifiuti di ogni casa editrice immaginabile, iniziata nel 1947 e terminata dopo la sua dipartita, merito dei talent scout e dei grandi lettori miopi, della nobiltà editoriale italiana, della calda rassicurante consuetudine, del sonno che ammorbava e ammorba tuttora un panorama letterario nato esausto e privo di ogni volontà innovatrice, che ha sempre preferito la strada vecchia, il consueto, l’ordinario.

Morselli era un mostro, una creatura prodigiosa e unica destinata per questo a far paura alla mandria ben omologata: sulla carta d’identità era definito agricoltore perché in vita non aveva pubblicato niente nonostante estenuanti tira e molla con ogni tipo di interlocutore. Non aveva successo perché era uguale solo a sé stesso, non aveva paragoni, emuli, compagni di merende, preferiva vivere isolato nel suo buen retiro di Gavirate, sul lago di Varese.

La ragazza con l’occhio nero citata nei suoi diari ritorna anche nel suo ultimo romanzo – sulfureo, nitidissimo – una distopia ideata prima che le distopie andassero di moda, un’Apocalisse scritta quando le apocalissi ormai erano rigurgiti medievali di vecchi mistici intossicati di polvere: Dissipatio H.G.

Giorgio de Chirico, Enigma della partenza (1914)

Morselli era così, un uomo senza tempo e fuori dal tempo. Si rincorrono nei suoi oggetti i riflessi di un’esistenza riservata ma pervasa da un barlume di grandezza, la vita dei postumi: la sua pistola, la cartella della corrispondenza con gli editori, ironicamente illustrata dallo stesso autore con un fiasco sulla copertina, la sua ingombrante Olivetti M20, la poltrona da giardino sui cui si è tolto la vita.

Anche Dissipatio H.G. parte da un suicidio, quello tentato dal protagonista proprio con una pistola e stranamente fallito. Questo evento segna inspiegabilmente la scomparsa del genere umano, anzi la sua sublimazione: restano vestiti vuoti, auto ferme in mezzo alla strada, animali. Manca solo l’uomo.

Giorgio de Chirico, Presente e passato (1936)

Perché il protagonista sia l’unico superstite non viene mai chiarito: viviamo ogni pagina come lui nell’ambiguità di una solitudine voluta e temuta, vagando fra i resti di un mondo che ha perso di senso, stretti dall’avanzare silenzioso di una natura indifferente. Forse il suo tentativo di suicidio l’ha reso un eletto, l’ha protetto dalla vaporizzazione dell’intero genere umano? Forse invece è riuscito ad uccidersi e questo è ciò che attente ogni morto dopo la fine?

La solitudine del protagonista apre prospettive interessanti sul senso dell’individuo quando è privato di ogni connotazione sociale: l’avventura di questo superstite è una riflessione spietata e pura sulla condizione dell’uomo moderno, sempre più isolato dentro una società disgregata, ma anche un esercizio spirituale e filosofico attorno al ruolo dell’uomo nel mondo che lo circonda.

Il protagonista lotta con se stesso, con la propria incapacità di capire e di rassegnarsi, ma non trova le risposte che cerca nel suo ambiguo purgatorio solipsistico, trova solo ricordi e allucinazioni che si impastano in un unico grande dilemma: esiste qualcosa oltre a me che penso?


Accoppiamenti giudiziosi

Morselli si conferma con questo commiato letterario un animo profondamente indipendente e autenticamente originale, capace di comporre un romanzo di lucida bellezza lontano dalle mode e dai precedenti, dai maestri, dalle influenze.

Non dissimile fu Giorgio de Chirico con la sua pittura metafisica, in cui la figura umana svanisce sotto architetture enormi e prospettive ardite che lasciano spazio alla mente per andare oltre il sensibile e provare ad accedere alla natura profonda delle cose, in un panorama che sembra sospendere la storia con la coesistenza di elementi eterni e contingenti, dentro lo schema di una bellezza inquietante che sembra irreale.

Giorgio de Chirico, Piazza d’Italia con statua (1937)

Anche la solitudine di Morselli e del suo protagonista sembra cambiare il loro modo di vedere le cose: la natura persa nei suoi cicli e completamente impermeabile si turbamenti umani, la maestà di Crisopoli, la città della finanza e dell’oro, ridotta a museo immemore e deserto in cui il denaro non ha alcun senso.

Il vagare fra le vestigia di un mondo svanito consente alla voce narrante di dare corpo e tridimensionalità ai panorami di De Chirico: città di manichini e suggestioni, Crisopoli diventa per il lettore simbolo di un enigma che oscura e irretisce, nonché monumento decadente a un genere umano ormai scomparso.

Che senso ha tutto questo? Se lo chiede spesso il protagonista mentre avanza in un ambiente simbolico e concreto, minaccioso e stranamente sereno, in cui la strage incruenta del genere umano si apre non nell’azione forsennata di un film ma nella contemplazione della propria interiorità, ormai libera di traboccare e di ergersi a unico punto di vista possibile sul reale.

Così diventano reali sospetti e allucinazioni, e l’immaginazione dell’unico personaggio e la sua cultura si disvelano – uno strato per volta – su un disagio lucido e puro, sugli interrogativi più profondi che l’animo umano possa farsi mentre si guarda da solo allo specchio, sul senso di tutto quello che ci ha riguardati come collettività e come individui nel tumultuoso correre della storia, dell’economia, dell’architettura, dell’arte verso un grande baratro inconoscibile.

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