Diverse gradazioni di buio schermano il lavoro di Simone Sauza mentre si attorciglia attorno ad una delle figure piu difficili da comprendere della nostra epoca iperconnessa e ciarliera: il serial killer.
Il titolo, atroce e meraviglioso, è una citazione dell’omicida seriale Ian Brady: Tutto era cenere.
Brady e il suo libro The Gates of Janus costituiscono una base di partenza per l’analisi di Sauza, ma si presentano anche come un’occasione per provare a scalfire il silenzio che sembra sigillare in un altro universo inaccessibile la violenza che divampa in alcuni esseri umani: un errore del reale cui non è possibile rimediare, un cortocircuito, una forma di chiarezza estrema e dolorosa.
Lontano da sensazionalismi e invenzioni, Sauza per la sua ricerca filosofica si affida a documenti e ricordi, cinema e musica, libri, unendo le voci vere di alcuni celebri omicidi seriali a proprie reminiscenze adombrate, personali: siti proibiti visitati da ragazzino, Maurizia Paradiso in tv a notte fonda, l’insonnia, il sesso, il disagio dello sguardo.

L’immagine che se ne ricava è quella di un computer, acceso di notte, che disegna la sagoma invisibile di qualcuno chino sulla sua tastiera – a lavorare, scrivere, architettare? – mentre il resto del mondo va a sfamarsi nell’incerta sovrapposizione di storie e testimonianze agghiaccianti.
La continuità del nostro mondo con quello perverso degli omicidi seriali è una parete fragile e permeabile che non nasconde ma anzi esalta i punti di contatto: come possono coesistere sullo stesso piano del reale i tuoi genitori e Ian Brady, Night Stalker e i bambini del vicinato che giocano sull’altalena?
Dissonanza, allucinazione? Incubo.
La voce di Simone Sauza indugiando e svelando riesce a sviluppare in parallelo il piano personale e biografico e quello proprio della ricerca, più saggistico e asettico: eppure l’occhio con cui si guarda a questa tematica lascia la sua impronta, è impossibile non farsi contaminare da queste storie e dai loro percorsi deviati.

Siamo tutti affascinati in qualche misura dal true crime e dal sangue. Guardiamo i telegiornali mentre la cronaca nera ci imbratta gli occhi per nasconderci altri problemi, altri panorami. Quando guidando ci imbattiamo in un incidente abbiamo sempre la tentazione di rallentare per vedere le altre auto devastate. Non possiamo fare a meno dello sguardo, del contatto con ciò che sembra appartenere a un’altra realtà completamente avulsa dalla nostra quotidianità. La morte suscita curiosità almeno quanto la nascita e ciò che la precede: il sesso e gli omicidi vengono tenuti nascosti, taciuti, eppure trapelano nelle curiosità dei ragazzini incollati a Rotten.com, negli snuff movie esistenti o inventati, nelle nostre piccole perversioni che siamo disposti quotidianamente a chiamare innocenti, autoassolvendoci, benedicendo con la nostra perversione quella più ampia, più profonda, del genere umano intero.
Accoppiamenti giudiziosi
Il lavoro di Simone Sauza è così nero da sposarsi alla perfezione con i dipinti su alluminio di Clare Woods.
Resta sullo sfondo la freddezza del metallo che dalla copertina di “Tutto era cenere” ci porta nelle opere di Woods: a risaltare sono i colori delle storie che ci vengono raccontate con dolorosi close-up, le deviazioni, i pennelli che disegnano curve cromatiche capaci di contenere in un unico brivido universale la crudezza anatomica di ogni scena del crimine mai esistita.

Il realismo distorto e allucinato di Woods, la ripetizione di soggetti e dettagli minuscoli ricordano la ricerca di completezza che Sauza pone alla base della sua riflessione sulla figura dell’omicida seriale: è il tentativo sofferto, gridato, di ricomporre un’identità perduta, la rincorsa al bisogno di essere e qualificarsi, saziarsi.
Nelle opere di Woods il desiderio si pone sullo sfondo di volti che sembrano al contempo travolti dal piacere e dall’orrore, in un ambiguo gioco di ombre e silenzi che trasfigura i colori in tonalità sinistre e imprime anche negli oggetti inanimati un senso di attesa, come se tutto l’universo concorresse ad assistere al suo malfunzionamento più estremo, alla sua crisi più profonda.
Il lavoro di Sauza, come un dipinto enorme e complesso, suggerisce e sussurra, non mostra, non proclama. Non ha la pretesa di esaurire una tematica enorme e scomoda, né cerca di fornire un atlante di orrori con cui il lettore possa imparare un incastro di nozioni: si limita ad esplorare, con l’eleganza di un flâneur e l’inquietudine di un sonnambulo, gli angoli bui del reale, guardando con lucidità estrema la parte più oscura dell’animo umano e cercando connessioni anche nei meandri proibiti in cui è indispensabile e straziante provare a indagare.
