Geoff Dyer lo mette in chiaro già nell’introduzione: non ho fatto storiografia, ho fatto jazz. Jazz su carta, s’intende, improvvisazione a partire da eventi veri che – come standard più o meno celebri – sono stati masticati e reinventati da uno sguardo squisitamente artistico e innovatore. Dyer può permettersi di fare anche questo, anzi può permettersi di fare qualunque cosa perché la sua scrittura e la sua voce sono così puri da consentirgli ogni tipo d’invenzione.
Eppure “Natura morta con custodia di sax” non è un libro d’invenzione. Come dimostrano la postfazione e il corposo apparato bibliografico, è l’ennesima prova d’autore che colloca Dyer nell’Olimpo della non-fiction. La forma pararomanzesca gli garantisce certo un margine di manovra che la saggistica pura gli avrebbe di sicuro precluso, però non indebolisce minimamente la solidità del lavoro di ricerca storico e soprattutto umano che Dyer ha dedicato a ognuno dei suoi personaggi.
Più che un libro su jazz è un libro sui jazzisti: sui loro metodi, sulle loro ossessioni, sulle loro debolezze, insomma sulle loro vite in genere brevi, feroci, abbinate in modo dissonante ma piacevole con il loro modo di fare musica.

Se Vasari fosse vissuto ai giorni nostri e avesse sviluppato uno strano interesse per la musica probabilmente avrebbe voluto scriverlo lui un libro del genere: i riferimenti biografici dei jazzisti diventano lenti con cui indagare la loro musica, la loro arte.
Quella di Dyer è un’orchestra fantasma in cui tutto avviene nel tempo sospeso del mito: si possono sentire i sax di Lester Young e Ben Webster, il piano di Thelonious Monk, il contrabbasso di Mingus, la tromba di Chet Baker. Dirige – naturalmente – un gigante eterno come Duke Ellington, cui sono affidati gli intermezzi fra i vari racconti nell’immediato scorrimento di un lungo viaggio in auto col suo autista.
I musicisti sono esplorati e scavati dalla penna di Dyer che sfrutta appigli biografici per strutturare un lavoro ben più profondo, qualcosa che riesca a raccogliere in poche pagine l’anima della loro musica e del loro modo d’intendere la musica.

Le storie ci aiutano a visualizzare il jazz come una catena: ogni musicista legato all’altro da citazionismo, rivalità, ammirazione. Le musiche ritornano, si rubano, si rinnovano. I jazzisti sono ladri, sono Prometeo che ruba il fuoco. Come ebbe a dire Ellington, “il jazz è sempre stato simile al tipo d’uomo con cui non vorreste far uscire vostra figlia”.
È anche un discorso comune, è al contempo arte e critica perché si nutre di richiami e di rotture e di dialoghi musicali. Non si può prescindere dal passato e certe volte nemmeno dal futuro: nelle vite dei jazzisti immortalati da Dyer troveremo tragedie annunciate e lente derive, trionfi, silenzi. È tutto importante per provare a capire la musica, è tutto perfetto.
Assistiamo così alla fine tragica di Lester Young, the President, e alla furia di Charles Mingus che licenzia e richiama i musicisti della sua band e maltratta il mondo come maltratta il suo contrabbasso. Finiamo nelle parole morsicate da Monk, negli appunti di Ellington, nelle lacrime alcoliche di Big Ben Webster. Siamo le allucinazioni di Bud Powell, i denti rotti di Chet Baker. Siamo musica.
Questi racconti sono vite e sono invenzioni, non importa saperlo, basta saperli ascoltare, basta godersi il viaggio mentre si richiamano l’un l’altro in un’eco bellissima e dissonante.
Accoppiamenti giudiziosi
Mi chiedo se sarebbe possibile parlare di jazz senza musica e senza parole, solo per gesti concretizzati immagini. Penso a Jackson Pollock.
La sua arte trae spunto non tanto dal jazz quanto piuttosto da una solida base comune, una sorta d’improvvisazione controllata che trae origine dal movimento e si pone in continuità rispetto ad esso: è esito incontrollato di una predisposizione d’animo, di un sentire interiore inespresso.
Pollock creò dipinti facendo sgocciolare il colore sulla tela e poi accanendosi su di essa: l’esito era una combinazione di ritmo, furia e attesa. Camminava sulle tele, lasciate per terra senza cavalletto, eppure nella sua produzione giovanile aveva studiato dal pittore Thomas Hart Benton e aveva acquisito da lui la tecnica della pittura tradizionale.

Come i jazzisti, il suo lavoro non era naïf, non era isolato: era citazione e polemica, era innovazione distruttiva, era rottura calcolata.
Arrivò al dripping dopo una lunga navigazione nell’arte figurativa che lo portò a risalire la storia in cui tutti siamo inseriti fino a qualcosa di istintivo e puro, eppure straordinariamente maturo.
Ad accomunarlo con i jazzisti ritratti da Dyer anche il senso di fugace perfezione che caratterizza ogni esibizione musicale. Resta la tela, certo, ma il movimento è svanito.
Pollock realizza con la sua opera un corollario grafico del jazz, in un certo senso. Suona con la vernice, decide tempi e pause, così come i musicisti jazz riescono a farci visualizzare colori e linee e ambienti nelle loro esecuzioni. Round Midnight, Autumn Rhythm, Lavender Mist, Mood Indigo.
Pollock e i personaggi di Dyer si specchiano gli uni negli altri. Citano e profanano, si perdono, si evolvono, giocano con passato e presente mentre procedono paralleli in tanti percorsi tortuosi che nella loro irripetibilità e nell’improvvisazione trovano la loro inestinguibile forza espressiva.

Natura morta con custodia di sax
Geoff Dyer – Feltrinelli, 2022
