Un padre affettato, stucchevole nelle sue manifestazioni d’affetto per la famiglia, posato e prolisso, ripetitivo, banale. Lo conosciamo tutti. È un tipo umano talmente innocuo e comune che quasi non si nota. Eppure ce n’è uno sono in ufficio. Ne troviamo sempre qualcuno in fila alle poste, al supermercato, al ristorante.
È l’uomo comune per eccellenza, quello che i vicini salutano sempre eppure non conoscono per niente, forse perché sotto la patina di sorrisi e buona educazione non c’è proprio nulla da conoscere.
Ne troviamo uno anche al centro del capolavoro di Ladislav Fuks, “Il bruciacadaveri”, riedito dopo anni di assenza dagli scaffali da Miraggi Edizioni. Il protagonista è il classico buon vicino, una cara persona, niente di particolare. Si chiama Kopfrkingl, lavora giù al crematorio.
Il libro parte così, con una lenta immersine nella melma borghese di una famiglia qualunque. È un horror, ci assicura l’autore, un horror alla Hitchcock. Eppure non sembra esserci orrore nell’esistenza superficiale di Kopfrkingl e di sua moglie, solo chincaglierie e buone maniere inutili.
Tuttavia di horror si tratta. Il terrore come nella vita vera striscia sommerso sotto strati di ipocrisia e di quiete. La storia del bruciacadaveri e della sua discesa verso l’inferno terrestre del nazismo fa paura perché è la storia di tutti. Fuks si rivela da subito un abile burattinaio, mentre allestisce il suo teatro di figure bidimensionali e le fa agitare sullo sfondo di una Praga in fermento, scossa dalla voce penetrante di Hitler e dal progressivo deformarsi della società civile in una trappola diabolica di burocrazia, condizionamento e persecuzione.
La caratteristica più evidente di Kopfrkingl è la sua vuotezza: come un vaso, come una lavagna pulita è pronto a ospitare qualunque idea incontri. Lo fa con la lettura – anche qui approssimativa – del Libro Tibetano dei morti, lo fa con le opinioni ringhiate da un vecchio amico di ascendenza tedesca, lo fa con i pettegolezzi, le curiosità, i casi di cronaca nera ascoltati per la strada o letti sul giornale, senza filtri.
Il male, d’altronde, è sempre altrove: nella perversione, nelle disgrazie che capitano a chi non è membro di una buona famiglia amorevole, a chi è diverso, a chi è sbagliato.
Ma cosa è giusto e cosa sbagliato?
Fuks riesce a ricreare un’atmosfera al contempo funerea e corrosiva, grazie a una scrittura perfetta per incanalare la banalità del male in un crescendo degno della migliore letteratura dell’orrore: senza mostri, senza effetti speciali la natura umana si rivela nelle sue pagine stranamente incline all’atrocità e alla sopraffazione. Non serve essere un genio o un ideologo d’alto livello per perpetrare il male, basta adeguarsi alla massa, al sentito dire, alla piattezza che ci circonda ogni giorno.
Il nostro bruciacadaveri si nutre di atmosfera e di conformismo e riutilizza nel suo sproloquio ripetitivo e intossicante le frasi che sente dire da altri o che legge per caso: la sua personale opinione non vale niente, è un incastro casuale di ciò che il mondo forza nella sua coscienza traballante: così il confine fra giusto e sbagliato si spoglia progressivamente di significato, si appende alle scritte che compaiono sui giornali, ai proclami, alle leggi.
Kopfrkingl a un certo punto del romanzo fa rilegare la legge sulla cremazione, che disciplina il suo lavoro quotidiano, come se fosse un pregiato incunabolo, anzi come se fosse un libro sacro. Basta questa scena per capire la tragedia del giuspositivismo vista con gli occhi di chi viene schiacciato da un regime totalitario e liberticida: la legge, sopra tutti, sopra ogni senso comune, si amalgama al rumore della stampa e al vociare delle folle in un unico grido feroce.
Accoppiamenti giudiziosi
L’ambiguità della narrazione di Fuks si sviluppa dentro un sistema claustrofobico: la famiglia.
Sotto parvenze di normalità o addirittura di leggerezza, nel corso della storia riusciremo a intravedere le crepe di un mondo borghese decorato appositamente per celare un nucleo buio e ferino.
Non mancano opere cinematografiche e letterarie dedicate all’esplorazione di ogni angolo buio delle relazioni familiari, ma l’opera di Fuks sembra accordarsi in particolare all’atrocità incomprensibile di un grande film, Miss Violence.

Contrariamente a “Il bruciacadaveri”, il film di Alexandros Avranas parte con un’esplosione – il suicidio di una bambina – e poi si contrae, riducendosi fino a implodere su una famiglia che è asfissiante e minuscola e che sembra contenere in sé, condensato, tutto il male dell’universo.
Anche qui per terrorizzare o disgustare non servono denti affilati, tentacoli o artigli: il mostro è dentro ognuno di noi, pronto a prendere il sopravvento.
È affascinante il parallelismo fra due opere così diverse eppure stranamente unite in un’armonia dolorosa attorno al tema della famiglia e dei suoi cunicoli bui: i meccanismi di potere travestiti da amore genitoriale e buona educazione corrodono le pareti delle case ben arredate e dilagano in una società da incubo pronta a lasciarsi scivolare me gorgo di un incubo collettivo fatto di stermini di massa, persecuzioni, libertà negate.
Come ebbe a dire lo stesso Avranas in merito al suo film: “Se nessuno decide di porre fine a questo circolo di violenza, esso continuerà”.
Ripensandoci aveva ragione Fuks: è horror puro.
