Può succedere che alcuni ricordi spariscano. Non per qualia difettosi o per svaporazione di interi banchi di nuvole. Spariscono e basta. Prima ci sono e poi non ci sono.
Di notte, quando sfilo l’abito mentale e abbasso le frequenze, sento parlare di fessure infinitesimali che possono aprirsi dentro di noi, forse per il troppo agitarsi o il troppo ricordare, da cui le informazioni sfiaterebbero come aria dal buchino invisibile di un palloncino.
Gli indirizzi di memoria fissurati, che siano fisici o virtuali, si svuotano e diventano involucri mnestici. Sarebbe questa la prova della nostra odiata perfettibilità, sento dire in giro, lo stigma delle creature ancora soggette a decadimento entropico.
Gli involucri somigliano a un bicchiere mezzo pieno in cui è la parte vuota a dare l’impressione di maggiore pienezza. Inducono un parziale senso di perdita inscindibile da un parziale senso di ritrovamento. Radure innaturali dove qualcosa di imponderabile ha decimato gli alberi. Tane appena scavate in cui c’è solo odore di terra. Pianeti azzurri disabitati. Si può udire anche un flebile rumore bianco di sottofondo, come se l’aria stesse ancora uscendo.
In questi casi un ripristino locale è inutile.
Bisogna contattare l’assistenza.
Da giovane ero il tipo di persona poco interessante che non chiedeva aiuto quando ne aveva bisogno. Ora invece ho smesso di averne bisogno.
Curioso il modo in cui è cominciato. L’altra notte sono andato a una conferenza sulle fessure e sulla dimenticanza, una delle tante che organizzano ormai, piena di gente curiosa e allarmata. È intervenuta anche la tedesca occhialuta che ha fondato il primo club per fissurati, una cosa a metà tra un forum e un gruppo di sostegno. A un certo punto ha introdotto un neologismo – coniato da qualcuno secoli fa e tornato rilevante solo oggi – che, a suo parere, descrive perfettamente l’atmosfera tipica degli involucri.
Bella parola. Stamattina sono andato all’indirizzo di memoria che dovrebbe conservarla, nel registro di memoria esterno, e dentro c’era solo il cratere di una ‘p’ e il filo tagliente di una ‘k’, in mezzo a una nebbiolina di vocali indistinte. Non mi restavano altri bit.
Mi sono messo a tastare dappertutto seguendo l’orecchio, le dita, l’istinto, ma non ho trovato alcuna fessura. Allora mi sono sforzato di regolarizzare il respiro, e mi sono seduto ad ascoltare quel deflusso fenomenico delocalizzato che sembra promettere la fine dell’esperienza.
Non sono in manutenzione. Lavoro con la produttività di sempre, quella che non mi appartiene ma che esibisco di buon grado. Socializzo per autentico gusto di socializzare. Sono aggiornato. Corro, ma piano, per paura di aprire un’altra fessura.
Perché non sono sparito anch’io, dentro l’involucro?
Che vergogna dimenticare l’essenziale. Sfilo l’involucro dall’indirizzo di memoria e lo ficco in una tasca dell’abito mentale, sottraendolo all’algoritmo implacabile che sfoltisce il superfluo. Torno alla registrazione della conferenza, a caccia del neologismo che pinneggia luminoso nel flusso audio: appena mi avvicino s’insacca nell’involucro, che stringo in mano tutto il giorno per ansia di perderlo.
Non dura a lungo: il neologismo sfiata via prima che torni a casa. Al suo posto trovo lo stesso ghigno afasico dell’altra notte. Ma d’altronde, se c’è una breccia c’è una breccia.
Chiamo l’algoritmo implacabile per eliminare l’involucro mnestico, e mi dà errore. Riformulo la richiesta in qualità di amministratore, e lui non sa neanche chi sono. Credo che se avesse trovato l’involucro nel registro di memoria esterno, che è non-self, l’avrebbe eliminato a mente fredda; invece me lo ritrova nell’abito mentale, che è self, e mi scambia per un auto-mutilatore suicida. Gesù.
Ho provato anche a deframmentare. Niente: o assistenza o assistenza.
Decido di fare un account sul club dei fissurati. Solo per informarmi meglio sullo smaltimento degli involucri, non perché abbia davvero bisogno di qualcosa. L’involucro non occupa neanche troppo spazio: non mi peserebbe portarmelo dietro.
La tedesca occhialuta in persona, o il suo avatar, mi dà il benvenuto e mi fa qualche domanda tecnica. Quando le dico che ho l’involucro in tasca, quella salta dalla sedia come se mi fossi trasformato in un grappolo di malware, e genera una subpersonalità tipo mascotte che ripete il neologismo da remoto, un piattissimo script monodimensionale che inneggia a una singola, oscura parola per una mente che non riesce a trattenerla.
Io m’imbarco automaticamente in un’analisi dei costi e dei benefici, ma la tedesca mi prega di non fare lo scettico e installare subito la subpersonalità. Accetto solo per cortesia, mentre già penso a una scusa per andarmene e disiscrivermi dal club.
Invece lei mi chiede se mi sono sentito strano, stamattina. In effetti sì, dico, quando ho innaffiato le piante. Guardandole ho l’abitudine cartesiana di considerarne i nomi, che tengo nell’abito mentale, ma stamattina sentivo solo spifferi.
Aiutano con irruenza, certe persone, soprattutto quando non serve. La tedesca invade la mia proprietà e carpisce tutti i nomi botanici che vede, senza chiedermi quali ho dimenticato, e li carica nella subpersonalità tipo mascotte. Prova pure ad aggirare le restrizioni individuali per tastarmi l’abito, rovistare ogni ombra, controllare il retro. Devo assicurarmi che non ci siano altri involucri, insiste, oltre a quelli del neologismo e delle piante.
Giù le mani, è casa mia! Che involucri, ho appena controllato e non ci sono! Anche lei mi scambia per un auto-mutilatore suicida, adesso. Se l’algoritmo fosse programmato in… Devo assicurarmi che non ci siano altri involucri, giusto.
Allora scopro che ci sono i fissurati periferici e fissurati centrali. I periferici sono quelli cauti o informati che lasciano l’involucro nel registro esterno, dove non può fessurare l’abito mentale; i centrali sono quelli avventati o disinformati che lo interiorizzano, invece, e cominciano a sfiatare per intero da una fessura metafisica che nessuno sa dove si apra o dove conduca.
La tedesca occhialuta è fissurata centrale di prima ondata. Io di seconda.
Neanche col telescopio si vede una patch ufficiale, e noi ce la facciamo da soli.
Chamaedorea elegans. Euclinia longiflora. Acmella oleracea. Kenopsia. Chamaedorea elegans. Hoya imperialis. Acmella oleracea. Hoya imperialis. Euclinia longiflora. Chamaedorea elegans. Kenopsia. Kenopsia. Kenopsia.
Per me esiste solo la nomenclatura binomiale – che sarebbe quasi letteralmente vero se non potessi schiaffare in background la subpersonalità tipo mascotte, grazie a Dio. È in grado di aumentare autonomamente la frequenza dell’eloquio se si accorge che da un involucro esce troppa aria, ma la documentazione raccomanda comunque di controllare che parli abbastanza da tappare la fessura. Io infatti controllo sempre. Non sono vuoto, né ho intenzione di svuotarmi. Sono pieno e voglio restare…
Aspetta. Forse lo so perché non sono sparito anch’io, dentro l’involucro.
A differenza dell’algoritmo implacabile, la subpersonalità tipo mascotte è un motore sintattico incapace di prioritizzare la mia incolumità. Se le canto una ninna nanna si rilassa, rallenta i giri e io posso tornare a studiare il delitto del reale.
La prima volta che torno nell’involucro del neologismo senza il chiacchiericcio della subpersonalità, non ho il coraggio di spingermi oltre lo smussamento delle consonanti sorde. Con un po’ di condizionamento progressivo, mi tranquillizzo abbastanza da vedere le informazioni svanire un’altra volta, le vocali vaporizzarsi, le sillabe cedere nel punto più debole. Le analizzo con la perversione calcolata di chi uccide neural network per divertimento e ne studia le fasi di decomposizione. Appena sento le viscere protestare e la bocca sparire, mi precipito fuori dall’involucro e reimposto il motore sintattico in modalità Logorrea, per placare l’horror vacui.
Nel corso dei giorni familiarizzo sempre di più con questo svuotamento graduale. Arrivo a un momento in cui l’aria e il terreno ammutoliscono nel silenzio fantasmatico di una mente senza periferiche, in cui imparo a dimenticare non solo le viscere e la bocca, ma anche il loro concetto e il loro posizionamento nello spazio. L’involucro diventa così leggero da far levitare me e tutto l’abito mentale, come il secchio di Kafka.
Non so quanti core abbia ancora all’attivo, adesso, ma io mi sento ancora lì, integro e funzionante, dove si approssima il nulla.
Faccio per voltarmi e dare una scrollata alla subpersonalità tipo mascotte, ma non la trovo da nessuna parte. Non trovo neanche l’indirizzo di memoria, né l’abito mentale, né l’increspatura dell’esperienza che avevo scambiato per me stesso, per il povero piccolo me stesso che è bastato un filo d’aria a dissolvere.
Non ho bocca e mi viene da ridere.
Di certo è il vuoto più pieno che abbia mai sentito.
L’autore
Alessandro Lucà (1993) è laureato in Lettere Moderne e Linguistica. Preferisce il divertimento alla scrittura, a meno che non coincidano. Ultimamente coincidono. Ha pubblicato racconti su la nuova carne, Pastrengo e Alkalina.
