La potenza di un narratore risiede innanzitutto nel suo sguardo. Occorre infatti una sensibilità straordinaria per intercettare alcuni elementi fondamentali ma quasi impercettibili che sono in grado di contenere da soli un’intera storia.
Dettagli, simmetrie, coincidenze. Un grande narratore li coglie istintivamente e li mette su carta, li rende monoliti attorno a cui far fiorire un libro.
Così fa Yasunari Kawabata nel suo romanzo La casa delle belle addormentate: una storia impalpabile fatta di dettagli e di sensazioni.
La trama è tanto scarna quanto efficace: il vecchio Eguchi visita alcune volte una singolare casa d’appuntamenti in cui gli anziani avventori hanno la possibilità di dormire accanto a giovani donne profondamente addormentate.
Nient’altro.
Nel pastoso fluire di un fascino ambiguo che avvolge l’osservatore e il corpo nudo che dorme, la natura inaccessibile e lontana delle ragazze e dei loro sogni rimarca l’essenza di ogni rapporto amoroso: l’alterità, la non conoscenza.
Il mistero rende la casa delle belle addormentate un congegno esistenziale, a metà fra la camera di privazione sensoriale e il talamo nuziale, fra vita e morte, fra sonno e veglia.
La seduzione della prosa di Kawabata risiede proprio nell’enigma di questi corpi giovani che sospirano, si voltano, si lasciano osservare completamente ignari del turbamento che la loro sola presenza fisica causa negli anziani ospiti della casa: ricordi? Premonizioni?
Le ragazze non si svegliano, sono altrove. Eguchi può toccarle, può saggiare la grana finissima della loro pelle e perdersi nel profumo innocente dei loro capelli ma non potrà mai conoscerle fino in fondo. La malia di questo luogo capace di soggiogare ogni uomo è proprio questo: lo spazio vuoto da riempire con l’immaginazione o il delirio, la distanza incolmabile, la nudità – intesa come verità e pienezza – appena intravista, celata, proibita.

Non è l’anatomia femminile il suo campo d’indagine, anche se Kawabata vi si dedica profusamente con descrizioni che rimandano allo sguardo profondo che riserva solitamente agli ambienti e al paesaggio giapponese, con il suo trasformarsi simbolico e discreto. La sua attenzione è totalmente radicata sul desiderio, su ciò che un corpo, reso inconoscibile dalla piacevole barriera del sonno, riesce a suscitare semplicemente con la sua presenza e col suo calore a forma di vallata, di collina, di declivio.
Kawabata passeggia così con il suo protagonista per il paesaggio sconfinato del suo stesso desiderio, aleggiando nella biografia del vecchio Eguchi come in un sogno confuso ma coerente, fra tenerezza e dolore, rimpianto, furori mai sopiti.
Accoppiamenti giudiziosi
La trasparenza uccide ogni fascinazione, rivela troppo, abbaglia: il desiderio di Eguchi cresce obliquo, nutrendosi di donne ammirate in penombra, velate da una coperta o da un lenzuolo leggero o ancora da un sogno che sembra quasi provare a fuggire dalle loro palpebre chiuse e invece rimane inesorabilmente imprigionato dentro la zona più intima e nascosta della loro mente.
Il sonno come simbolo opaco di inaccessibilità evapora e regredisce verso il passato, procedendo da Kawabata sino all’epoca vittoriana, con i suoi tabù e le sue ossessioni: un’età castigata di pudore esasperato in cui letteralmente sfolgorò un’opera anomala e vibrante come Flaming June di Sir Frederic Leighton.

Il dipinto, inizialmente progettato come parte di una composizione più ampia, ha subito rivendicato una sua autonomia grazie ai colori sgargianti e all’innegabile fascino che è capace di suscitare, valicando il confine fra sonno e morte, proprio come Kawabata, proprio grazie ai dettagli: non è un caso che compaia sullo sfondo un ramoscello tossico di oleandro, mentre la protagonista rannicchiata in una posizione languida sembra retrocedere a un momento precedente la nascita pur senza perdere una sottile vena di mistero e sensualità.
Personificazione dell’estate, la modella fu ritratta nuda per consentire all’artista uno studio dettagliato della sua posa sinuosa: l’oscurità del sonno si sposa con qualcosa di antico e fiammeggiante, eterno, con l’ingranaggio perfetto del tempo che scandisce le stagioni dell’anno e della vita umana.
Sta dormendo, sta morendo? Tanto nel romanzo di Kawabata quanto nel dipinto di Leighton, la consistenza ovattata del sogno travalica il ritratto, il ricordo, l’esperienza di vita e diventa qualcosa di assoluto e proibito, materializzandosi in una bellezza tanto perfetta quanto difficile da comprendere fino in fondo.
