“Dio dorme nella pietra” di Mike Wilson

Nel West l’atmosfera è tutto. Ce l’hanno insegnato i primi piani di Sergio Leone e la lingua riarsa di Cormac McCarthy: lo dicono gli scorpioni, le piante secche che rotolano, persino i cavalli mentre guardano attoniti il nulla che si mangia la nostra civiltà, un boccone alla volta.

Non servono molte parole, servono solo paesaggi abbastanza vasti da contenere tutto il male di vivere che affligge ogni vero cowboy.

Mike Wilson, nel suo western extra dry “Dio dorme nella pietra”, plasma per il suo protagonista senza nome un paesaggio perfetto, un ambiente duro ed enorme, una distesa di rocce che non riesce a rassegnarsi al suo ruolo di sfondo: la terra è protagonista e sta all’inizio e alla fine di ogni narrazione.

È soprattutto dimora di una spiritualità antica e misteriosa, che si nutre di violenza e di buio: spiriti fossili e presagi malevoli, che prendono la forma di sogni confusi e di confuse malattie, demoni che sembrano divinità e divinità invisibili che si annidano negli interstizi della memoria umana, nelle porosità comatose della pietra.

Il protagonista, il cowboy senza nome che cavalca attraverso questa terra inospitale, sembra perseguitato da una ricerca senza fine, fra incontri inquietanti e strane visioni di un pianeta rosso e irreale: il suo scontro titanico non è contro l’uomo, è contro un Dio vendicativo e selvaggio, contro il paesaggio che lo stritola.

Nella prosa pastosa di Wilson si avanza a fatica, ogni passaggio è un trionfo e una rivelazione.

I dettagli, in questo modo, si definiscono lentamente in una messa a fuoco dolorosa e parziale: un cavallo, indiani e banditi, animali imprigionati nella pietra, una ferita infetta che scava la carne. Attorno, il tempo eterno dei minerali.

Possiamo fermarci o proseguire. Non possiamo capire tutto, non ci è concesso. Seguiamo così, al galoppo, il nostro cowboy solitario nella polvere sollevata dagli zoccoli del suo destriero: una nube che confonde e occlude la vista e funge da motore della narrazione perché riesce a imprimere agli eventi raccontati l’ombra seducente di una comprensione solo parziale e di una visione necessariamente mutilata sulla realtà.

Nei crepacci e nelle gole più anguste, Wilson sa come tendere un agguato al lettore senza che se ne accorga: la sua voce granitica e monocorde si asciuga, diventa un rigagnolo sottile capace d’incidere la pietra mentre lascia filtrare, inesorabile, il sovrannaturale e l’assurdo dentro una vicenda che inizialmente riesce a mimetizzarsi bene attorno a uno strana forma di realismo.

La catabasi del cowboy lo porta in questo modo dentro i materiali, nella dura essenza di ogni cosa che è dolore ed espiazione ma anche abbandono a un mistero invincibile che non può essere dissipato dalla ragione, dalla scienza, dalla fede.

Ci sono cultisti vestiti di rosso e lebbrosi, figure minuscole che si ostinano a vivere dove la civiltà sembra sgretolarsi come una vecchia diligenza abbandonata. Il tempo del western è l’istante eterno di un duello sul punto di concludersi: il nulla dilatato, l’attesa incomprensibile delle ere geologiche che piegano la pietra e spostano gli oceani.

Ciò che si affronta, in questa lettura densissima, è il senso di tremenda marginalità dell’essere umano dentro un universo eterno e sconfinato: la sua dignità di scimmia bipede mentre inciampa disarmato fra giganti di roccia e cieli sterminati è atroce e meravigliosa.

Wilson non ha pietà per i suoi personaggi, non offre facili letture: si limita a osservare, come un sasso o un pianeta lontano, la decomposizione di ogni eroismo e di ogni mito moderno dentro l’eternità delle cose inanimate.


Accoppiamenti giudiziosi

È impossibile rimanere indifferenti davanti alla varietà di ambienti che il protagonista innominato attraversa: sono specchi dell’animo umano, ne sono causa e conseguenza allo stesso tempo?

In particolare, nella sua discesa vertiginosa verso il nucleo pulsante del mistero, il cowboy di Mike Wilson attraversa un paesaggio quasi irreale, che sembra presagire il suo destino e quello di tutto il resto del genere umano: la pietrificazione.

Si tratta di un lago salnitroso che non lascia crescere l’erba. Uno specchio per il cielo e per le poche creature che osano attraversarlo. Al suo centro sorge una cattedrale di ossa: un costato, un cranio. È lo scheletro consumato di un bisonte.

Un paesaggio così evocativo esiste veramente, in Tanzania: il lago Natron.

Ha la solennità di un tempio o di un cimitero, col mistero venefico delle sue acque dai colori sbagliati e la maestà grigia degli animali mummificati che riposano per sempre attorno alle sue rive.

La sua acqua, con pH compreso fra 9 e 10,5 e temperature fino ai 60 °C, è inadatta alla vita per la maggior parte degli animali ed è ricca di carbonato decaidrato di sodio, una delle sostanze usate dagli antichi Egizi per le loro pratiche di imbalsamazione: per questo motivo gli animali che muoiono nei suoi paraggi non subiscono un normale processo di decomposizione ma rimangono pietrificati, come statue.

Il fotografo Nick Brandt ha dedicato a questo paesaggio liminale una fortunata serie di fotografie intitolata Across the Ravaged Land, in cui ha saputo catturare l’orrore e la meraviglia di questi corpi eternati dalle acque caustiche di questo ambiente surreale.

Dove comincia il paesaggio? Dove finiamo noi?

Wilson non dà coordinate per questo viaggio che sembra scardinare le piste americane per gettarle in Africa o nello spazio profondo. La sua voce, come lo sguardo di Nick Brandt sulle acque alcaline del Lago Natron, sperimenta una metamorfosi dolorosa mentre cala il suo protagonista sempre più a fondo nelle viscere della terra: è una presa di coscienza straziante della nostra mortalità, ma è anche un sublime sconcerto di fronte alla grandezza del paesaggio che ci ingloba e cristallizza in ricordi, fossili, tracce indelebili.

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Tutte le fotografie del presente articolo sono tratte da “Across the Ravaged Land” di Nick Brandt e sono state incorporate dal suo sito nickbrandt.com

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